I TRE SONO UNO

Nella storia del Cristianesimo, la dottrina della Trinità[1] ha sollevato dilemmi e polemiche.

Alcuni l’hanno accettata con delle riserve, altri la rigettano in nome della ragione.

Tuttavia, per quanto effettivamente sovrasti le capacità mentali umane, il concetto di un Dio in tre membri non costituisce un mero dogma conciliare, ma si pone quale oggettiva verità biblica che, seppure non sia spiegabile razionalmente, si può affermare per fede.

 

I. LA DEDUZIONE BIBLICA

Il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo[2] compaiono più volte insieme (Mat. 3:16, 17; 28:19; Giov. 14:26; 15:26).

Essi quindi non sommano la triplice progressiva manifestazione[3] di un solo essere, altrimenti la rivelazione di uno avrebbe preso il posto della rivelazione dell’altro instaurando una nuova era;

così non è (II Cor. 13:13; I Pie. 1:2).

In seno alla divinità, la distinzione tra Padre e Figlio non pare stabilita con la venuta di Gesù sulla terra né cessare con il suo ritorno alla gloria celeste: esiste da sempre e per sempre (Giov. 1:18; Mat. 26:29; Apoc. 3:21).

D’altra parte, nemmeno risultano tre divinità separate, a sé stanti, poiché condividono l’azione di un unico Dio. La rivelazione e le opere del Padre, quelle del Figlio e quelle dello Spirito esprimono un solo deposito divino ed un esclusivo volere divino (Giov. 10:30, 37, 38; 14:10, 11; 16:14, 15; Ebr. 2:4; I Cor. 12:4-6, 11; Efes. 4:4-6).

 

II. LA SOSTANZA TEOLOGICA

Le Scritture affermano la divinità del Padre (Efes. 4:6; II Giov. 3), la divinità dell’Unigenito (Colos. 2:9; Ebr. 1:8) e la divinità dello Spirito (Atti 5:3, 4; I Cor. 2:10, 11).

Spostandoci dalla natura all’attività della Trinità, l’opera della creazione e il piano della redenzione denotano diversi ruoli tra i tre, però non differenti gradi di deità[4].

I Tre sono uno e pari quanto all’eternità:

Antico e Nuovo Testamento dichiarano l’elemento sostanziale dell’assoluta divinità, cioè l’eternità (Rom. 1:20); tutte le creature, anche sovrumane, hanno un inizio, non esistono da sempre.

Dio il Padre è eterno (Sal. 90:2), Dio il Figlio è eterno (Rom. 9:5), Dio lo Spirito è eterno (Ebr. 9:14).

I Tre sono uno e pari quanto alla dignità:

il Figlio è l’impronta dell’essenza del Padre, come dire che ha identiche impronte digitali (Ebr. 1:3);

il nome dello Spirito Santo (il suo sigillo) coincide con quello di Dio (Efes. 1:13, 14).

I Tre sono uno e pari quanto alla gloria:

al Padre e al Figlio sono tributati uguale onore e adorazione (Giov. 5:23; Ebr. 1:6; Apoc. 5:12, 13);

lo Spirito Santo fa glorificare il Padre e il Figlio, ma Egli è degno dello stesso culto e della stessa riverenza di cui essi sono oggetto[5] (Mat. 12:32; II Cor. 13:13 cfr. Num. 6:24-27; I Pie. 4:14).

Il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo non costituiscono dunque tre divinità differenti (per volontà, dignità e gloria), bensì tre centri di coscienza ovvero tre “persone[6]”.

 

III. LE PARTICOLARITÀ LINGUISTICHE

Nella Bibbia l’ortografia grammaticale è funzionale all’ortodossia della verità spirituale, poiché la limitata capacità del linguaggio umano non deve intaccare le perfezioni divine.

La coesistenza di più persone nell’unica divinità è già enunciata nel primo versetto della Bibbia (Gen. 1:1), dove il Signore non è citato con il singolare Eloha (Dio), ma al plurale Elohim (le deità).

L’uso del plurale subordinato alla dottrina della Trinità è chiaro (Gen. 1:26; 11:6-8; Isa. 6:8).

È biblico ritenere che in simili episodi Dio non si rivolge a degli angeli né ad alcun’altra creatura, bensì a qualcuno che gli è perfettamente pari (Sal. 110:1 cfr. Ebr. 1:13, 14).

Dio qui non parla ad angeli anche perché essi non mandano altri nel loro nome, ma sono inviati dal Signore (Ebr. 1:7, 8). Invece, nel nome dell’Unigenito, Dio manda lo Spirito Santo (Giov. 14:26).

Inoltre, si riscontra l’uso di una terminologia specifica.

Dove le Scritture vogliono intendere una unità assoluta è utilizzato il vocabolo ebraico “yachid”, ad esempio in riferimento ai figli unici (Gen. 22:2; Giud. 11:34; Prov. 4:3).

Dove invece le Scritture indicano una unità composta è usato il termine “echad”, come quando si riferiscono ad “una” famiglia o ad “una” nazione (Gen. 2:24).

Quest’ultimo vocabolo è applicato a Dio, sebbene si rimarchi la sua unicità: “Ascolta, Israele: il Signore, il nostro Dio [Elohim] è l’unico [echad] Signore” (Deut. 6:4).

Tale verità concernente l’unità composta è applicata in modo esplicito da Gesù al rapporto fra sé e i Padre (Giov. 17:21-23).

 

IV. MONOTEISMO E TRINITÀ

Dinanzi al rigido monoteismo ebraico (cfr. Isa. 43:10-12; 44:24), come si è potuta stabilire la dottrina della natura trina di Dio? Non certamente sulla scorta di una contaminazione con tradizioni pagane, nelle quali si credeva a delle triadi, cioè all’esistenza di tre dèi separati[7] (Colos. 2:18, 19).

La Chiesa, serbando la rivelazione basilare che Dio è uno, ha gradualmente preso atto delle rivelazioni sul Figlio e sullo Spirito Santo quali compartecipi della stessa essenza divina del Padre.

Tale acquisizione teologica è testimoniata già nell’insegnamento di Cristo, il quale lascia intravedere che “il braccio del Signore” si identifica con un messia di natura divina, è un salvatore esattamente come Dio eppure distinto da Lui (Giov. 12:38, 41-47).

Il Nuovo Testamento recepisce e asserisce questa rivelazione (Atti 4:12; Tito 2:13).

Alla verità verità che Dio è il Signore, si è aggiunta con autorevole naturalezza la verità che “Gesù è il Signore” (I Cor. 12:3) e che “il Signore è lo Spirito” (II Cor. 3:17).

L’autorità divina del Figlio è associata a quella del Padre (Ebr. 1:8; Giov. 5:22 cfr. Giac. 4:12),

la signoria dello Spirito Santo è la medesima signoria del Figlio (I Cor. 8:6; II Cor. 3:17, 18).

La ricezione storica della Trinità è avvenuta senza traumi spirituali, costatando che il Figlio di Dio incarnato si è dimostrato l’unico Salvatore, esattamente come Dio nell’Antico Patto (Isa. 45:21-23 cfr. Filip. 2:9-11).

Così, nelle Scritture ispirate Monoteismo e Trinità non si escludono (I Tim. 2:5).

Emblematico l’insegnamento dell’apostolo Paolo, che esalta la perfetta divinità di Cristo e al contempo benedice “il Dio e Padre del nostro Signore Gesù Cristo” (II Cor. 1:3).

La rivelazione di Dio, quindi, non si esaurisce con il motivo salvifico dell’incarnazione, nella quale Dio è il Padre del Signore Gesù. Il Padre è altresì il Dio del Signore Gesù Cristo, “vero Dio e vero uomo” (Efes. 4:5, 6).

Come mai? Perché Gesù è autore di una salvezza che non delimita la divinità dell’Unigenito, ma preclude la divinizzazione di quelli ai quali egli ha “acquistato una redenzione eterna” (Ebr. 9:12). In questa direzione, Paolo ritocca un primitivo inno cristiano inserendovi alcune specifiche funzionali alla sua cristologia monoteista (Filip. 2:6-11). Egli forza il ritmo della poesia semitica nell’apice lirico del cantico sulla maestà di Cristo, aggiungendovi che Gesù Cristo è il Signore “alla gloria di Dio Padre”.

Questa aggiunta perché la posizione eccelsa attribuita a Cristo non costituisce una defezione dal monoteismo biblico e non deve fare dedurre che l’Altissimo è stato detronizzato[8]. La signoria di Cristo è mirata a consegnare il regno al Padre (I Cor. 15:27).

In armonia con le Scritture ebraiche (Isa. 45:23), Gesù Cristo è celebrato quale sommo servitore, avendo compiuto ogni atto della redenzione, ed è riconosciuto Signore (Kyrios) non in vista della sua propria esaltazione, bensì “alla gloria di Dio Padre”.

D’altra parte, tale intervento teologico-poetico neppure rappresenta un dietro-front che riconducendo il Figlio ad una deità ridimensionata.

Altrove infatti leggiamo: “La fede che ci è comune diventi efficace nel farti riconoscere tutto il bene che noi possiamo compiere, alla gloria di Cristo” (Filem. 6). 

In Filippesi 2:11 Paolo non sta trattando la Trinità; egli vuole ribadire le consegne ricevute dal Figlio di Dio per compiere l’opera della salvezza, precisando tuttavia che l’autore (il Salvatore) e l’opera (la salvezza, i redenti), pur essendo indissolubilmente collegati, rimangono due entità.

Estendendo il concetto, affermare: “il Dio del nostro Signore Gesù Cristo” pone una verità che non scalfisce la divinità dell’Unigenito, ma preclude il superbo “essere come Dio” di quelli ai quali egli ha “acquistato una redenzione eterna”. Questi saranno non divinizzati, ma glorificati per conoscere appieno Dio ed ammirarlo senza veli (I Cor. 13:12; I Giov. 3:2; Apoc. 4:9-11).

 

V. L’ESPERIENZA SPIRITUALE

Nei versetti di I Giovanni 5:7, 8 appare la Trinità nell’opera di salvezza dei peccatori.

Lo Spirito Santo viene ad applicare questa opera perfetta al cuore del peccatore, mentre questi si ravvede, convinto dalla Parola di Dio che rivela il sacrificio del Redentore.

La Parola di Dio, simboleggiata qui dall’acqua (cfr. Efes. 5:25; Tito 3:5, 6) rivela il piano di salvezza concepito dal Padre già prima della creazione del mondo, piano che Cristo ha attuato versando il proprio sangue sulla croce, opera che lo Spirito Santo applica al cuore dell’uomo (Efes. 3:11, 12).

Per i redenti in Cristo la divina Trinità non è soltanto una dottrina teologica; essa consiste anche in un’esperienza della loro comunione e devozione spirituale, poiché realizzano la presenza di un solo ed unico Dio (Giov. 14:16, 17, 23; I Cor. 3:16; 6:19).

I figli di Dio del continuo realizzano l’amore del Padre nel Nome di Gesù e per la guida dello Spirito Santo (Rom. 8:26, 27; Efes. 2:18; Giuda 20, 21).

                                                                                                                                

Alessandro Cravana

 

[1] Il termine “Trinità” fu coniato da Tertulliano di Cartagine, un vescovo del III secolo e significa “triplice unità”, ovvero “unità composta da tre”.

[2] L’Evangelo insegna a chiamare le tre persone divine con termini del linguaggio familiare, quali Padre, Figlio e Spirito Santo; ciò per consentirci di afferrare nel modo più semplice sia la distinzione che la relazione intercorrenti fra di esse.

[3] Tale tesi fu sostenuta dal vescovo libico Sabellio nel III secolo ed è nota con la definizione di “modalismo”.

[4] Alcuni antichi teologi attribuivano al Figlio e allo Spirito Santo un grado di divinità inferiore rispetto a Dio Padre, affermando quindi una diversità di natura divina. Un altro teologo libico, Ario, (III/ IV secolod. C.), considerò il Figlio e lo Spirito Santo quali esseri venuti all’esistenza per mezzo del Padre, negandone la co-eternità.

[5] Il fatto che tra le persone della divina Trinità è la meno citata nelle Scritture, si spiega con il ruolo dello Spirito Santo, il quale ha ispirato gli scrittori biblici, che è di testimoniare non di Sé, bensì del Padre e del Figlio (Giov. 16:13-15).

[6] La parola latina “persona”, derivata dal greco “pròsopon”, indicava la maschera che gli antichi attori indossavano nei teatri per dare voce e immagine a figure tipiche che venivano così rappresentate. Da ciò il vocabolo fu usato per indicare il modo in cui Dio si rende percepibile agli uomini, facendo udire la sua voce pur restando il suo volto invisibile ad essi (cfr. Giov. 14:9; Colos. 1:15). In ambito cristiano fu usata per primo da Clemente Alessandrino, ma sarà Tertulliano a dargli il riferimento religioso più incisivo applicandolo alla definizione della Trinità.

[7] Era nota, ad esempio, la triade babilonese, costituita da Amun, Bel e Ela. Vi era pure la Trimurti (“triplice forma”, in lingua sanscrita) indiana, composta da Brahma, Visnù e Siva.

[8] Come accadrà nella tesi dello gnostico Marcione, con l’esautorazione finale del Dio giudice della creazione da parte del Dio d’amore della redenzione.

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