Alcuni quesiti da tempo vertono sul ruolo del calice nella celebrazione della santa cena.
È esatto intendere il calice soltanto quale mero sinonimo o contenitore del vino?
Oppure, questo a sua volta rimanda a dei contenuti ovvero a significati di natura spirituale?
L’uso del calice rientra nell’insegnamento di Cristo sulla cena o si tratta di consuetudine ecclesiale?
CONSIDERAZIONI PRELIMINARI
Come notorio, a causa della pandemia sono trascorsi anni segnati da una forzata astensione dal celebrare la santa cena per molte comunità cristiane.
Certamente l’adorazione in spirito e verità ha potuto continuare nonostante ciò, ma si avverte pressante e diffuso il desiderio di onorare il Signore anche con questa espressione di culto.
Le restrizioni sanitarie, tuttavia, hanno costituito un’occasione storica per riflettere a tutto tondo sulla pratica della santa cena.
Bisogna chiedersi se, al di sopra delle avversità materiali e dei governi politici (cfr. Isa. 45:7), il Signore stesso non abbia voluto fermarci, per farci poi ripartire con rinnovata diligenza in questo ambito della nostra devozione.
Egli chiama a celebrare la cena con maggior precisione biblica e con più profondo esercizio di fede?
Il delicato tema va affrontato con onestà ed obiettività, perfino con coraggio, pronti a compiere un passo indietro o un passo avanti. Affrancati da preconcetti e consuetudini che potrebbero legarci, ma pure senza inseguire popolarità e consensi umani.
In altre parole, la questione va affrontata animati dal timore del Signore.
IL CALICE E IL VINO
Dalle Scritture si evince che il calice non costituisce una terza categoria semantica dell’espiazione (Rom. 3:25; 5:9; I Pie. 1:18, 19; I Giov. 1:7).
Esso non interferisce sull’immagine dell’efficacia dell’offerta vicaria di Cristo rappresentata con il pane ed il vino (Ebr. 10:5, 10, 29).
Il calice non integra il simbolismo posto dal vino, che esprime direttamente e compiutamente il sangue del sacrificio dell’Unigenito di Dio, in cui si ristora l’anima redenta (Ebr. 9:12-14).
Sotto tale profilo, non è errato né irriverente dedurre che il calice è un contenitore. Anzi ciò risulta una continuità perfettamente logica, poiché, diversamente dal pane, che è materia solida, il vino è materia liquida e per essere afferrato va riposto in un recipiente1 (Luca 22:19, 20).
Sarebbe invece piuttosto illogico pensare che il calice raffigura il vino (peraltro già presente e visibile nel rito) che a sua volta rappresenta il sangue (Mat. 26:27-29).
IL CALICE E IL RITO
Nel Cenacolo, Gesù ha stabilito pochi gesti solenni ed essenziali ricavati dalla vita quotidiana, ovvero mangiare e bere nell’intimità familiare dopo aver benedetto e ringraziato Dio per la salvezza (Mat. 26:26-28). Questo costituisce di fatto il breve rito cristiano.
In cosa consiste la santa cena, qual è la sua primaria finalità?
Celebrare in prospettiva escatologica il nuovo patto fondato su Colui che si è incarnato allo scopo di morire prendendo su di sé la giusta condanna del nostro peccato (Mat. 26:28, 29; I Cor. 11:26).
Appare chiaro che il calice rientra visivamente nello svolgimento del rito, nell’osservanza del comando o ordinamento: “Fate questo, ogni volta che ne berrete, in memoria di me” (I Cor. 11:25).
Il punto non sta nel comprendere se il calice sia un contenitore materiale, perché lo è ed in quanto tale può essere di varia forma, grandezza, può essere fatto di terracotta, vetro, metallo, ecc.
Il punto è nel fatto che il contenitore è uno, dal quale tutti devono bere (Mat. 26:27; Mar. 14:23).
Ora, come memoriale la santa cena va “vissuta” senza scadere nel vuoto ritualismo, quindi nel ricordo personale della propria esperienza di redenzione; tuttavia, come rituale va celebrata nel modo più aderente possibile alla forma nella quale Cristo l’ha comandata e trasmessa.
Nella pratica di un rito, infatti, non si possono distanziare forma esterna e partecipazione spirituale, quasi che fossero due elementi prescindenti l’uno dall’altro: la forma è sostanziale, poiché rimanda ad una precisa verità di fede e non a qualcosa che gli si avvicina approssimativamente.
Pertanto non è tanto il servirsi del calice, della coppa o di un bicchiere, quanto utilizzare uno solo di questi è l’uso che risulta più aderente alla istituzione biblica della cena.
IL CALICE E I “CONTENUTI” BIBLICI
Nel Vangelo di Giovanni, le parole dette da Gesù in occasione della cena sono diverse da quelle riportate nei vangeli sinottici, ma implicitamente ricordano che, per la comunione con il Signore, noi mangiamo il Suo corpo e beviamo il Suo sangue (Giov. 13:18; 6:56).
La santa cena è offerta da Cristo, essendo il memoriale del nuovo patto che riconcilia perfettamente a Dio, in virtù del sacrificio offerto unicamente da Lui per tutti noi.
È la cena del Signore, della più intima comunione con Lui, è il calice del Signore (I Cor. 11:27)
Ciascuno beve dal Suo calice, dopo che ha bevuto Lui e tutti bevono da quell’unico calice (Giov. 18:11; Ebr. 10:14). A questa realtà è ancorata la forma con l’uso di un solo calice.
L’accento non è nel bere contemporaneamente tutti insieme, bensì nel bere tutti dallo stesso calice.
“E, preso un calice, rese grazie e disse: «Prendete questo e distribuitelo fra di voi»” (Luca 22:17).
L’amore fraterno si nutre dell’amore di Dio (II Pie. 1:7), la comunione dei redenti attinge alla fonte della salvezza e si abbevera alla comunione personale con Cristo (I Giov. 1:3, 7).
L’uso del calice risulta più aderente a tale verità; l’uso dei bicchierini la smorza e può disperderla.
Beninteso: questo non significa che il rito è valido per il suo corretto operato formale, ma che l’insegnamento dell’Evangelo viene scrupolosamente o fedelmente rappresentato.
IL CALICE E LA PASQUA EBRAICA
Gesù istituisce la santa cena quando il banchetto della pasqua è stato in parte o interamente consumato (Mar. 14:22; Luca 22:14-16).
L’uso di un solo calice pare denotare una funzione assertiva e distintiva del Nuovo Patto, come a
distaccare il nuovo memoriale di salvezza dei redenti in Cristo dalla pasqua ebraica (Ebr. 8:8-13).
Infatti, nella liturgia del pasto pasquale si disponeva di quattro differenti coppe o calici che venivano utilizzati in sequenza.
1. Il calice di Kiddush (l’antipasto consistente in erbe verdi, erbe amare e salse), che il capofamiglia porge).
2. Il calice della Haggadah (la spiegazione dei significati della pasqua date dal capofamiglia ai figli. Ad esempio: “Perché si mangiano erbe amare e pane non lievitato?”).
3. Il calice della Benedizione (la preghiera di ringraziamento per il pasto).
4. Il calice di Hallel (il salmeggiare di lode legato alla redenzione [cfr. Sal. 116:13]).
Ora, istituendo la cena, il primo calice non è più usato da Gesù in quanto il memoriale del nuovo patto supera la ricordanza delle sofferenze degli israeliti in Egitto (Ger. 31:32; Eso. 12:8).
Cristo soltanto ha bevuto un calice di sofferenza che noi non potevamo bere (Mat. 20:22; 26:42).
Il secondo calice non è più usato poiché superato nella comunione personale accordata nel nuovo patto (Ger. 31:34; I Giov. 2:20).
Il terzo calice è usato, ma applicato ora al sangue di Cristo (Mat. 26:27, 28; I Cor. 10:16).
Il quarto calice non è più usato, probabilmente inglobato dal terzo (Mat. 26:30; cfr. Luca 22:17).
IL CALICE E I RITUALI PAGANI
La dottrina della cena segna altresì la demarcazione da pratiche pagane che avevano delle analogie con l’ordinamento di Cristo, ma spesso implicavano l’ingerimento del sangue delle vittime sacrificali da parte degli offerenti (cfr. Sal. 16:4).
Il calice non pone un alternativo simbolo del sangue, ma è un’immagine del suo uso esclusivo per la salvezza dei peccatori (I Pie. 1:2).
Esso viene sparso da Cristo per la remissione dei peccati, non offerto in sacrificio dai devoti e quindi bevuto dalla loro propria coppa (cfr. I Cor. 10:21; 11:27).
La santa cena è un memoriale delle sofferenze di Cristo, le uniche capaci ad espiare per altri, e non l’offerta di un sacrificio. Perciò specificare la distribuzione dell’unico calice offerto dalla mano di Cristo aumenta l’idea che il sangue sarebbe stato versato da uno solo (Luca 22:17, 20).
Inoltre tale uso pare mitigare l’atto del bere il sangue rappresentato dal vino (cfr. Giov. 6:53-56).
Infatti per l’ebreo bere il sangue costituiva un abominio (cfr. Lev. 17:10-14) e così sarà per i cristiani (Atti 15:19, 20, 29).
Emblematico, al riguardo, il fatto che il Vangelo di Marco (il più antico) parla del “sangue del patto, che è sparso per molti” (Mar. 14:24). La stessa specifica verbale è posta da Matteo 26:28.
Questa non indifferente funzione distintiva è mantenuta nella celebrazione della cena laddove tutti bevono dal medesimo calice, mentre invece si disperde con l’uso di bicchieri personali.
L’INSEGNAMENTO APOSTOLICO
Contrapponendo la santa cena a dei banchetti rituali pagani, l’apostolo Paolo attribuisce al “calice del Signore” una valenza spirituale protesa a rinforzare l’unità spirituale di quanti partecipano all’unico sacrificio e sola fonte di salvezza per tutti gli uomini (cfr. I Cor. 10:16, 17).
L’apostolo ha già avuto l’ardire di affermare che “tradire” la celebrazione della cena, sia nella dottrina che nel coinvolgimento spirituale, annulla nella sostanza lo stesso rito: “Quando poi vi riunite insieme, quello che fate, non è mangiare la cena del Signore” ma solo la vostra (I Cor. 11:20).
Esponendo poi l’originaria istituzione della santa cena ad una comunità cristiana non di estrazione giudaica, ovvero quella di Corinto, l’apostolo riporta le parole di Gesù ponendole quale stabile insegnamento sul modo in cui “fare” la santa cena in memoria di Lui (I Cor. 11:24, 25).
All’aspetto formale, Paolo collega le esortazioni sull’atteggiamento interiore nel quale accostarsi alla mensa del Signore (I Cor. 11:27-29).
Entrambi gli aspetti, liturgico e devozionale, indicano chiaramente il vino bevuto non dal proprio bensì dal “calice del Signore”.
D’altronde, se i membri di chiesa devono aspettarsi reciprocamente per prendere la cena del Signore (cfr. I Cor. 11:33), ciò implica che non la prendevano tutti contemporaneamente.
Un pane da spezzare e un calice da distribuire, dunque: questa è la prassi originata da Gesù insieme ai suoi primi discepoli.
Pane e vino, entrambi significativi del patto in Cristo e “distribuiti” non secondo la preferenza liturgica delle comunità di fede, bensì in base alla durevole disposizione del Signore, “poiché ogni volta che mangiate questo pane e bevete da questo calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga” (I Cor. 11:26).
Avendo programmaticamente dichiarato: “Ho ricevuto dal Signore quello che vi ho anche trasmesso” (I Cor. 11:23), l’apostolo non si è limitato a condividere la sua comprensione personale, ma ha voluto dettare una tradizione biblica, nel senso di verità di fede rivelata da Dio e tramandata dai credenti, perciò un modello ecclesiale non modificabile (cfr. I Cor. 15:1; II Tim. 2:2; Giuda 3).
TESTIMONIANZE EXTRABIBLICHE
La Didaché (dottrina dei dodici apostoli) fa menzione dell’uso di un solo calice.
“Per l’eucarestia, così rendete grazie: «Dapprima per il calice… Poi per il pane spezzato»” (Did. 9:1, 2).
Ignazio d’Antiochia recepì la valenza spirituale dell’unico calice.
“Badate bene a non abusare dell’eucarestia, poiché una è la carne del nostro Signore Gesù Cristo e uno è il calice per l’unificazione nel suo sangue” (Le lettere, 95s, 83).
Giustino martire ribadisce quanto istituito la sera in cui Gesù fu tradito:
“Gli apostoli infatti, nelle memorie da loro lasciate e che si chiamano vangeli così tramandano che a loro è stato comandato e che Gesù, prendendo il pane, rendendo grazie, disse: «Questo fate in mia memoria, questo è il mio corpo», e allo stesso modo, prendendo il calice e rendendo grazie disse: «Questo è il mio sangue» e a loro ne fece prendere parte” (Apologia I, 66, 1-3).
IN ULTIMA ANALISI
Bisogna sempre guardarsi da ogni superficialità individuale, che assottiglia l’esaminare sé stessi dinanzi all’opera di Cristo, come pure da ogni genere di esasperazione, che sia miope letteralismo o ansioso igienismo. Poiché se viene meno l’elemento della fede nel timore di contagi, allora si depaupera facilmente la fede capace di discernere, oltre i simboli materiali, il corpo ed il sangue del Signore. Va mantenuta la fede che si alimenta della dottrina del Signore, la fiducia nell’eterna e soprannaturale efficacia espiatoria del sacrificio di Cristo, per la quale non ci si accosta alla sua mensa temendo di essere contagiati da qualche malattia, ma piuttosto nella speranza di essere risanati, grazie alla stessa offerta per cui abbiamo pace con Dio, poiché “mediante le sue lividure noi siamo stati guariti” (Isa. 53:5).
Alessandro Cravana