Anticamente, tra i credenti il concetto della buona morte poteva indicare innanzitutto un trapasso sereno, “sazio di giorni” dopo avere vissuto ampiamente l’esistenza terrena (Giob. 42:17).
Nella società moderna, esso ha sviluppato il senso di “morte indolore”, “morte provocata per pietà”, ponendo volontariamente fine ad una malattia incurabile con un decesso indotto, troncando lunghe agonie e penose condizioni di vita.
LE NORME GIURIDICHE
Attualmente, tra le nazioni vigono differenti normative riguardo l’eutanasia.
La legislazione italiana condanna l’eutanasia, sia in forma attiva che passiva, assimilandola al reato di omicidio volontario e punendola con l’articolo 575 del Codice penale, che prevede una condanna minima di 21 anni di carcere, riducibili (secondo l’articolo 579) da 6 a 15 anni se la vittima è consenziente.
Il “suicidio assistito” è condannato dall’articolo 580, sia come istigazione che aiuto al suicidio, e punito con reclusione da 5 a 12 anni.
I RISVOLTI SOCIALI
Ecco l’intricato nodo: il diritto di morire dignitosamente, universalmente riconosciuto, può legittimare il diritto di porre fine alla vita umana?
Data la grande rilevanza e delicatezza della questione, il dibattito é più che mai aperto e genera accese controversie su tutti i fronti: medico, etico e politico.
Molti medici accettano l’eutanasia passiva, quella procurata con la sospensione delle cure farmacologiche, astenendosi dal così detto accanimento terapeutico, mentre bocciano l’eutanasia attiva, cioè procurata mediante la somministrazione di sostanze che causano il decesso.
Tale “pietosa soluzione” alla sofferenza risulta compatibile con il giuramento di Ippocrate, prestato da quanti iniziano la professione medica, in cui si dichiara anche: “Guidato dalla mia esperienza e dalle mie cognizioni, ordinerò un regime alimentare per curare gli ammalati, salvaguardandoli da ogni male e da ogni danno. A chiunque mi chiederà un veleno, glielo rifiuterò, come pure mi guarderò dal consigliarglielo”.
Nella sfera etica, la coscienza personale può condividere l’opportunità di non ricorrere a procedure terapiche o chirurgiche pericolose e sproporzionate rispetto ai probabili esiti.
LE DIRETTIVE BIBLICHE
Solitamente per gli atei ogni interrogazione religiosa è soltanto una sterile polemica dinanzi ad un immane travaglio psico-fisico giudicato senza speranza e quindi senza senso.
Per il credente, invece, non la scienza o la moderna morale laica possono autorevolmente insegnare cosa fare in casi simili, bensì la Parola di Dio (Giob. 36:20-22).
La Bibbia pone la vita umana come dono divino inestimabile, in vista della comunione con Dio.
In un corpo umano irrimediabilmente debilitato risiede una “persona interiore”, che può sentire manifestazioni della grazia divina e quindi ricevere vita eterna, prosperare in salute spirituale (II Cor. 4:16; Atti 17:25).
Perciò, senza minimamente escludere l’umana pietà verso quanti soffrono nel corpo, occorre pure recuperare compassione spirituale per un anima immortale fatta a immagine di Dio, rivalutando il tempo e le occasioni affinché non si perda, restando separata da Dio per l’eternità (Giob. 33:19-24).
La scelta di voler porre fine alla propria vita é facilmente una conseguenza della perdita di lucidità e della disperazione, spesso anche dell’estrema ribellione al Signore (Giob. 6:9-11; Apoc. 9:6).
Fa riflettere il caso del suicidio del re Saul: il soldato che finì quest’uomo moribondo fu poi condannato quale omicida dal re Davide (II Sam. 1:9-10, 14-16).
Il Signore soltanto ha la sovrana autorità di disporre della vita e della morte d’ogni creatura umana (Deut. 32:39; I Sam. 2:6).
Il “vitalismo” è un’altra posizione estrema, opposta rispetto all’eutanasia: tale definizione raggruppa vari aspetti accomunati dal voler conservare la vita fisica il più a lungo possibile. Bisogna però guardarsi dal sottoporre i malati incurabili a pesanti trattamenti che oltraggiano la loro dignità, talvolta unicamente per motivi di studio e ricerca.
In certi casi, con la rinuncia all’insistenza dei trattamenti tramite macchinari sanitari non si vuole procurare la morte, ma si accetta di non poterla impedire con forme di vita artificiale.
C’è profonda differenza tra un “procurare la morte”, come negazione della vita, ed il “permettere la morte”, che accetta il naturale compimento di essa (Eccl. 3:1-2).
In ultima analisi …
Rispondendo al moderno concetto laico di eutanasia, l’argomento biblico centrale non sta nell’evitare che altri decidano per il malato, con o senza il sostegno di principi etici e norme giuridiche.
Si tratta, piuttosto, di lasciare che il suo Creatore e Redentore decida il meglio per il malato terminale e indichi le cose migliori a quanto sono al suo capezzale (Sal. 139:16-17; Rom. 14:7-8; Filip. 1:22-24).
Pertanto, per l’ammalato incurabile non va ricercata la morte né un esistenza artificiale, ma cure mediche ed assistitenza spirituale fino all’ultimo (II Re 15:5; Prov. 14:32; Efes. 5:29).
La Scrittura parla dunque di un “morire bene”, in quanto l’anima è preparata ad affrontare il trapasso avendo compiuto tutto il suo servizio al Signore, liberata dal giudizio divino e dalla paura dell’aldilà (Rom. 8:38-39; Filip. 1:20-21).
Alessandro Cravana